Pubblicato il 12 Luglio 2022
di Andrea Bisicchia*
Molto spesso un secolo si riflette nelle sue creature femminili, tanto che queste ne rappresentano lo specchio reale o deformante, generoso o ingordo, adatto a evidenziarne i vizi e le virtù. Franco Enriquez, nel mettere in scena la “Locandiera”, si è molto rifatto al secolo in cui fu scritta, indagando, soprattutto, quello femminile, anche perché il Settecento, governato da donne come Maria Teresa d’Austria e Caterina II di Russia, concentra, in sé, i turbamenti di una età che punta la propria immagine sulla costruzione di una vita all’insegna della libertà e della spregiudicatezza.
Donne, come Mirandolina, ne diventano il vessillo, l’insegna luminosa, il referente primario, l’organo di frivolezza e di piacere. Eppure, al momento della sua nascita, non era stato così, dato che gli stessi genitori non erano contenti di aver partorito una femmina, perché non procurava, certo, felicità al focolare domestico, essendo venuta al mondo in una società governata dalle leggi saliche che vedevano, nell’uomo, l’artefice unico, oltre che l’erede di tutto, tanto che la donna non poteva aspirare ad alcuna eredità, insomma non aveva molte speranze di affermazioni in nessun campo. Consapevole di ciò, Enriquez lavora molto su come la donna potesse emanciparsi in un mondo di uomini o come potesse contribuire a riformare una società che intendeva sottrarle ogni cosa, essendo stata, fin dalla fanciulezza, derubata di tutto ciò che le spettasse, persino di aver pensato a un futuro in cui, essere bella, poteva significare essere desiderata, coccolata e, magari, contribuire a trasformare, in realtà, tutto ciò che aveva immaginato.
C’è da dire che un secolo si riflette sempre nella classe più elevata, nel Settecento, è proprio la donna aristocratica a conferirgli un volto, uno spirito, a dargli un tocco di classe, un personale senso del gusto. Mirandolina, quindi, ne era esclusa, perché appartenente a una classe inferiore. Eppure, la donna, in genere, era consapevole di poter tutto, forse lo sarà anche Mirandolina, quando riuscirà a prendere coscienza di sé, per questo, secondo Enriquez, lei aveva in mente di elevarsi, onde rendere il suo universo più accettabile.
In genere, la vita delle donne settecentesche, si consumava in due luoghi deputati: il salotto e il teatro, non certo, la locanda, che era una specie di taverna, scarsamente illuminata, fumosa e, spesso squallida, frequentata da clientele un po’ volgari, magari da attrici non molto pagate. Enriquez, con l’ausilio determinante di Luzzati, lavora sullo spazio, puntando all’emblematicità del luogo, se non, addirittura, a un non-luogo. Accedere a una locanda era diverso che accedere a un salotto che permetteva di entrare nelle grazie della Signora che lo gestiva, di incontrare altre dame e ricercare il piacere del pettegolezzo. Vi si riunivano donne intelligenti, capaci di confrontarsi tra di loro, alcune erano ingenue, altre astute e , a secondo dei ruoli, erano capricciose, tenere, garbate, caratteri che Enriquez studia con spirito critico per rivestire il personaggio di Mirandolina.
Egli ben sapeva che, attorno al mondo delle aristocratiche, si muoveva quello delle servette, della cameriere brillanti, delle locandiere, come dire che, ogni secolo, dispone del suo doppio. Quello aristocratico era preminente e più visibile, più curato nel trucco, nell’abbigliamento, nelle parrucche e nelle toilette, quello popolare era meno mondano, ma sempre più civettuolo, essendone il riflesso modesto, ma dignitoso.
Quasi sempre le servette non erano eleganti, ma avvenenti, desiderabili, provocanti, grazie ai grembiuli di stoffa che lasciavano intravedere dei candidi seni, o grazie a della braccia nude che uscivano dai pizzi che venivano loro regalati dalle signore, dopo averli smessi. Queste figure femminili risultavano indispensabili, soprattutto, quando accompagnavano le signore in villeggiatura con le loro smanie, in cerca di avventure anche peccaminose, fino a diventarne delle confidenti.
Nella sua ricerca sul secolo, Enriquez, grazie alla sua vasta cultura, sa come muoversi, conosce tutte le scorciatoie, lo stare al giuoco delle donne che, molto diverse dalle Serve di Genet, conoscevano i trucchi dell’amore, proprio perché, nell’amore, la donna del settecento , trovava il suo modo d’essere, il suo gusto della libertà, di cui conosceva l’aspetto dolce, sofisticato, ma anche quello sregolato e brutale.
Possedeva l’arte di adattarsi alle circostanze, Mirandolina ne era una vera e propria esperta, essa non temeva l’uomo, perché, secondo Enriquez, sapeva amarlo e odiarlo, essere indifferente e, nello stesso tempo, coinvolgerlo, fino ad ammansirlo e disporne a suo picacimento, lei finiva per impersonare la Ragione, a cui sottoponeva tutto, anche l’amore, ritenuto una tattica, se non una trappola, per raggiungere i propri scopi, fino a gestire il matrimonio con Fabrizio, ma senza intetessi. Enriquez le fa impersonare le contraddizioni del secolo, la religione del calcolo, la leggerezza, la violenza, se il caso lo richiede, il gusto del cambiamento, tanto da divenirne una protagonista, specie tra gli autori di teatro.
Spettò a Goldoni evidenziarne, proprio attraverso il personaggio di Mirandolina, gli aspetti più inquietanti, quelli che evidenziavano la crisi di una classe sociale, segnando il trapasso dal mondo aristocratico a quello borghese, di cui rappresentò, la franchezza, il coraggio di non disdegnare la classe popolare che aveva tanto contribuito alla trasformazione del secolo.
Goldoni aveva capito che l’aristocrazia stava per disfarsi, perché minata dalla corruzione e dal declino economico, oltre che dalle logore istituzioni, era consapevole che non era più tempo di eroismi e si apprestava a rappresentarne, non più le affettazioni, le esteriorità, le volgari felicità, bensì le debolezze, le ridicolaggini. La sua vera Riforma consistette nel portare in scena la scalata delle classi subarterne, di cui Mirandolina era il prototipo.
La regia di Enriquez puntò su questo trapasso, senza un vero e proprio apporto ideologico, senza il latente marxismo delle regie trasgressive di Missiroli e Cobelli che verranno dopo, perché a lui interessava quel tracciato che era legato al processo di evoluzione della società italiana, sia essa veneziana o fiorentina o siciliana, tanto da fare, della sua Mirandolina, il modello visibile del divenire di un secolo che non crea ostacoli alla fiumana del progresso, di cui la donna borghese era stata artefice, un progresso orientato verso le classi del ceto medio, verso una economia che, dal palazzo, si trasferiva nelle locande, dove Mirandolina civetta, lusinga, provoca, incanta, seduce, grazie alla interpretazione di Valeria Moriconi che sa assumere su di sé l’arte del trasformismo, mettendo alla berlina il mondo fittizio dell’aristocrazia laida e decadente, rappresentata da un grande Glauco Mauri quella, poco credibile, offerta da Giuseppe Porelli, un “ brillante” che sapeva recitare col giusto distacco che è implicito nel suo personaggio e, infine, quella borghese, impersonata dal Cavaliere a cui dà un bel volto Paolo Graziosi. Mirandolina pensa, in fondo, al potere delle donne, anticipando quella consapevolezza dei loro diritti che la proietta fino ai giorni nostri. Valeria riuscì a testimoniare la stanchezza morale di un secolo e quel declino che lo porterà alla rivoluzione.
Queste mie considerazioni nascono da un lungo colloquio, al Biffi Scala, con Enriquez, il quale mi raccontò delle sue lunghe ricerche sociologiche sulla donna settecentesca, prima di arrivare alle prove dello spettacolo che riscosse, a Milano, lo stesso trionfo del Carignano di Torino, trionfo che coinvolse il suo direttore Gianfranco De Bosio per la scelta dell’inaugurazione e per aver puntato su un regista come Enriquez.
* critico e studioso teatrale
L’immagini di copertina è tratta da pintarest.it