Il DAMS di Bologna, lo storico ingresso di via Guerrazzi

Incontri: l’omino misterioso, Luigi, la Maestrina dalla penna rossa, il Pazzo. Bologna, è il 1979, gli anni del DAMS (1)

Pubblicato il 25 Novembre 2021

di Paolo Pirani

Questa volta non faccio un racconto unico, ma lo suddivido in due parti da due episodi anzi da due ciak per darvi modo di prendere respiro.


Incontri questa volta con personaggi meno noti al vasto pubblico ma pur sempre unici e di primissimo piano nel mio personale “inventario della memoria”; che hanno caratterizzato la mia giovanile frequentazione con la “dotta” Bologna del Dams (Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo), degli ultimi rigurgiti del ’68 con l’occupazione controversa e contrastata degli immobili popolari sfitti del centro, dell’immane tragedia a sfondo eversivo della Stazione ferroviaria, della Lectura Dantis di Carmelo Bene dalla Torre degli Asinelli in memoria di quegli 85 poveri “cristi”.


Il DAMS

Le tracce indelebili di una vita

Personaggi che hanno lasciato una traccia indelebile, che rivivono in me a quarant’anni di distanza dal primo incontro, sotto la vivida luce del ricordo. Forse anche perché prima di essere “personaggi” sono “persone”. E, in quanto tali, universi unici ed irripetibili di sensazioni, emozioni, speranze a cui un poco appena ho dato e (ma) tanto di più ho ricevuto. Come sempre accade dall’incontro di due Anime. Racconto di un incontro in forma di soggetto cinematografico che prevede: quattro ciak. Ora i primi due.


Bologna, via Sant’Isaia, tra il civico 108, casa mia, e il 104, l’ospedale psichiatrico Roncati

 


-1° ciak-. Esterno notte

Rientravo a casa molte volte a tarda sera, anche d’inverno, per il fatto che, soprattutto a partire dal secondo anno, frequentavo i cinema e i teatri dove potevamo avere accesso noi studenti con sconti inimmaginabili per la maggior parte del pubblico, proprio per il fatto essere del Dams. Era un accordo evidentemente sottoscritto tra le parti, ovvero tra la scuola, il Comune e i gestori di quei locali.


Prima della porta di casa c’era (e c’è tutt’ora) una finestra, di quelle basse, a pianterreno, con la grata per impedire l’accesso a ladri e malintenzionati, maggiormente necessaria in considerazione del fatto che era una delle finestre del reparto aperto dell’ospedale psichiatrico mio confinante.


Da dietro quella grata, nel buio più assoluto della stanza, con puntualità meticolosa e per me sempre sconvolgente, un anziano figuro, forse invecchiato più che realmente vecchio, mi salutava di scatto: “Buona sera !”.


I portici che percorrevo oramai a memoria erano scarsamente illuminati in quell’ultimo tratto di strada verso la circonvallazione interna, e tuttavia procedevo tranquillamente, preda dei pensieri più disparati, ma credo simili a quelli di un comune studente universitario. Ripensavo allo spettacolo o al film appena visto, riandavo alle lezioni del giorno passato, programmavo l’attività di quello successivo: laboratori, librerie, ancora teatro, tanto teatro e cinema, gli esami, l’appello più o meno imminente, casa mia, gli affetti, gli incontri. E così via. E’ stata per me una sorpresa sempre nuova, un soprassalto dopo l’altro, un incontro infinito quello con l’omino pressoché calvo, al di là della grata, con la finestra aperta sia d’estate che d’inverno, gli occhiali con le lenti come fondi di bottiglia, un sorriso tirato e compiaciuto sulla bocca, la barba ispida e vestito come non ho mai meglio notato, sporgendo lui solo con la testa.


Umberto Eco e Squarzina tra noi studenti durante un’occupazione

-2° ciak-. Esterno giorno

Di mattina, ancora presto, poco prima di alzarmi per l’inizio dei corsi, per almeno due anni consecutivi, ho avuto la stessa sveglia: si trattava di un uomo immagino sulla cinquantina, capelli corti e dritti, con indosso un impermeabile color panna tenuto legato in vita da un pezzo di corda, recante in mano una di quelle valigette di cartone dei nostri emigranti del secolo scorso, pantaloni alla caviglia, calzini bianchi e abbassati su scarpe di vernice beige morse dal tempo.


Si poneva diligentemente in attesa dell’autobus n.28 e quando lo vedeva avvicinarsi alla fermata che era proprio sotto la finestra della mia camera da letto, schizzava in mezzo alla strada come una molla, levava in alto il braccio sinistro con fare deciso, quasi imperioso, e gridava a squarciagola: “Luigi, Luigi, … Luigiiiiiii” che, evidentemente, era per lui una sorta di invito all’autista a farlo salire a bordo. L’autobus si fermava con regolarità e lui, che avevo ribattezzato “Luigi” non conoscedone il nome, con altrettanta precisione si ritirava in buon ordine sotto i portici indicando all’autista che poteva proseguire. Ignorando la situazione che veniva a crearsi, il risentimento dei passeggeri, lo sbigottimento di quanti erano in attesa di quello e degli altri bus cittadini, delle invettive degli autisti.


(fine prima parte – il 2 dicembre la seconda)

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