Pubblicato il 3 Aprile 2025
di Flavia Buldrini*
Un successo per lo spettacolo “Frà – la superstar del Medioevo” dove la figura di San Francesco è raccontata da Giovanni Scifoni. L’opera è stata martedì 25 marzo al teatro Rossini di e al teatro delle Muse di Ancona lunedì 31 marzo.
“Chi non ama S. Francesco?” Si chiede Giovanni Scifoni all’inizio dello spettacolo – “tutti si sono appropriati di lui, e tanti registi e attori l’hanno rappresentato.”
La superstar del Medioevo, allora, prende forma sul palco attraverso il genio dell’artista, la sua agilità scenica, la vis comica, la mimesi che diverte, ma che sa anche commuovere, toccando le corde più profonde dell’essere umano. Vi sono infatti valori universalmente riconosciuti e indiscutibili: tale è la santità di Francesco, che conquista tutti, anche gli atei. Lo spettacolo “Frà”, scritto e interpretato da Giovanni Scipioni con la regia di Francesco Ferdinando Brandi, si gioca tra la storia del santo, che conosciamo tutti, e le risonanze che nel mondo moderno possono avere temi come la povertà, la vanità, la fraternità, la bellezza del creato.
Nonostante tutta l’evoluzione tecnologica, potremmo dire con Quasimodo, “sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo”: la natura umana è sempre la stessa, contesa tra male e bene, vizi e virtù, morte e vita. Per questo un santo è sempre attuale e ha ancora molto da insegnarci. Catapultato ai nostri giorni, i rimandi sono scherzosi e irriverenti, nel contrasto stridente tra i personaggi del jet set e la figura serafica, tutta dedita alla libertà interiore e alla carità.
Suoi tratti salienti sono l’obbedienza alla Chiesa, che lo distingue dagli eretici che perseguono la povertà, ma in aperta rivolta; l’umiltà, che lo fa mettere all’ultimo posto; “la perfetta letizia” che mantiene inalterata la sua beatitudine di appartenere a Dio pur nelle avversità. Si ripercorre per momenti topici la sua vicissitudine: dalla giovinezza spensierata, tesa ad inseguire ambizioni mondane, come quella di diventare cavaliere, al sogno che scombina i suoi piani, quando gli si domanda chi voglia seguire: il servo o il padrone.
E poi il primo seguito dei frati, l’estro affabulatorio delle prediche, l’incontro con il Papa Innocenzo III, che, dopo l’iniziale diffidenza, resta anch’egli affascinato dalla sua sorprendente piccolezza – per cui non esita ad eseguire alla lettera il comando di andare in mezzo ai porci -; fino alla sua avventura in Terra Santa, dove, come raccontano le Fonti, per poco non converte il sultano.
Ma è anche il dramma che vive S. Francesco nel vedersi misconosciuto dai propri frati grandemente aumentati di numero, che chiedono una regola e che si attenui la rigidità dell’osservanza ad litteram del Vangelo. Il santo lascia umilmente l’Ordine nelle mani di Pietro Cattani e si ritira “con forti grida e lacrime” (Eb 5,7) alla Verna, col solo inseparabile frate Leone che l’assiste e, a lui che si sentiva abbandonato, il Signore si rivela e gli imprime le stimmate, come il sigillo del suo essere alter Christus. Infine, trascorre i suoi ultimi giorni nella malattia tormentosa e nella quasi totale cecità; ma proprio nell’estrema sofferenza sboccia il canto più bello che inaugura la letteratura italiana: il Cantico delle Creature, musicato dai compagni di quest’avventura, Luciano di Giandomenico, Maurizio Picchiò e Stefano Carloncelli che hanno brillantemente accompagnato il racconto teatrale con strumenti antichi quali il liuto, lo shofar, la nyckelharpa.
Lo spettacolo si conclude con Giovanni Scifoni che invita a compiere uno sperimento al pubblico, chiudendo gli occhi al buio e poi con le luci dei riflettori – un modo per esorcizzare la paura della morte, una sorta di “buio luminoso” – e il personaggio Francesco che senza timore rende l’anima a Dio, esaudendo il suo desiderio più grande: “Voglio vederlo.”
*La giornalista Flavia Buldrini ha inviato questa sua recensione che volentieri pubblichiamo




