Pubblicato il 17 Febbraio 2024
di Lorenza Cappanera*
Ancona è una città difficile per i turisti che vogliono visitarla, a cominciare dal complicato assetto di strade e superstrade che la circondano per raggiungerla, e bisogna davvero armarsi di santa pazienza per affrontare il traffico, non solo cittadino ma quello generato dai traghetti. Ricordo un inglese, che aveva visitato tutto delle Marche, indietreggiare sfinito alla stazione ferroviaria. A niente era servito dirgli che era quasi arrivato al centro storico, secondo me la parte più bella della città, secondo lui aveva già visto abbastanza.
Eppure Ancona è così bella, mi dico, mentre salgo per la via che dal Teatro taglia per arrivare al Duomo. Voglio recarmi all’Archeologico questa volta, decisa a raccontare di una statuetta, anche se non ne avrei davvero le competenze, che ha attirato in particolare la mia attenzione. La via in questione è intitolata a Ciriaco PIzzecolli, uno che inizialmente non era un esperto, ufficialmente era un mercante sempre in viaggio lungo l’Adriatico in rotta per la Grecia, ma appassionato di disegno e di storia antica. Invece divenne il primo archeologo italiano e una targa, nella splendida e antica città di Delos, lo ricorda non appena si sbarca nell’isola.
Che cos’è in fondo l’archeologia? E’ riportare in vita ciò che è morto e talvolta anche sepolto da millenni, perciò Lorenza confortati e non temere, tu riporti in vita da sempre le vecchie case abbandonate sparse nel territorio, e questo spiega in parte la tua indole, mi dico, mentre salgo preoccupata lungo la via.
Il Museo Archeologico delle Marche è situato nello splendido palazzo Ferretti, che si trova fronte porto ma un po’ sollevato sulla collina del Guasco, appena sotto San Ciriaco, il duomo della città. Entrando consiglio di recarsi subito nella terrazza al piano della biglietteria. Da lì si ammira tutto il golfo. Una visione davvero appagante di una città che ama arrampicarsi sui colli ma che vuole specchiarsi nel mare, specie al tramonto, il momento più estatico della giornata.
Il Museo contiene una mirabile collezione di reperti piceni e greci in massima parte, Ancona era una colonia greca e fu fondata dai Dori di Siracusa, e sembra che debba il suo nome al greco Ankon che significa gomito, che è un po’ la sua conformazione geografica. Inattesa, d’altronde, del tutto diversa dal resto dell’Adriatico occidentale e che continua fino a Numana, offrendo scorci di incomparabile bellezza.
Faccio questa premessa perché mi serve da cornice a quest’oggetto in esposizione al secondo piano del palazzo, posto in una teca solitaria attorniato da gigantografie sulle pareti che lo ritraggono in evidenza.
Non so perché ma quest’oggetto mi attrae ogni volta in maniera incomprensibile. Sono riandata a vederlo qualche settimana fa e di nuovo mi ha suscitato un’emozione. Si tratta di un reperto in pietra calcarea, una stalattite, che non raggiunge i 10 cm di altezza e che ritrae una figura femminile rappresentata da una grande pancia rotonda e pingue, la testa appena accennata, gli avambracci tesi in avanti. Trovata in una grotta della Gola della Rossa, ha un’età che varia dai venti ai venticinquemila anni. Nient’altro da dichiarare. Punto.
Io sono il grembo di ogni bosco
Io sono la vampa di ogni collina
Io sono la regina di ogni alveare
Io sono lo scudo di ogni testa
Io sono una collina dove camminano i poeti
Io sono un’esca del paradiso
Io sono la tomba di ogni speranza
Sebbene sia un testo celtico irlandese denominato La Canzone di Amergin, questa poesia richiama, a mio modesto parere, la nominata “Venere di Frassasi” che di Venere non ha niente e nemmeno attinenza dato che si tratta di un oggetto che ha un’età tra i venti e venticinquemila anni e perciò se qualcuno si è sentito di accostarla impropriamente alla dea che possiamo considerare storia recente, posso anch’io dire la mia in merito.
E del resto, il mio modesto articolo è da evitare se si è turbati o stanchi o se si ha una mente rigorosamente scientifica. In tal caso è sufficiente solo la prima descrizione sopra.
Ma, a mio avviso, questa piccola statuina che si può tenere tra le mani, quasi tascabile insomma, può suscitare qualsiasi sentimento e qualcuno ancora sensibile per fortuna può farne l’uso che ne vuole, un po’ come probabilmente facevano già allora.
Usiamo però ancora una volta la nostra famigerata logica: la pancia rimanda alla fertilità, alla propagazione della specie, forse anche alla buona fortuna: una buona caccia, buona raccolta di bacche ed erbe, all’acqua, al ritorno alla ruota che gira,alla vita che continua. Un talismano? Forse.
Cerco di immedesimarmi in quel periodo, avvolta di sole pelli, nascosta nella grotta, nel silenzio della sera, in attesa del ritorno dei propri simili. Che cosa spero? Che arrivino, che tutto sia andato bene, che la sorte sia stata propizia, ancora una volta. Oppure a scolpirla è stato un vecchio, senza più forze, in attesa della morte, che augura alla sua tribù una vita rotonda e generosa.
Quelle braccia protese in avanti sono simbolo di accoglienza, o richiesta? Di qualcosa che deve arrivare, che si spera che arrivi. Non c’è ancora traccia di culto, mi dicono, in quel tempo antico, il paleolitico appunto, ma c’è chi afferma che “il linguaggio del mito poetico , anticamente usato nel Mediterraneo e nell’Europa settentrionale fosse magico e in stretta relazione con cerimonie religiose in onore della dea Luna ovvero della Musa, alcune delle quali risalenti in età paleolitica”. E ciò lo afferma Robert Graves, famoso mitologo e poeta dei primi del Novecento, che amo spesso rileggere e che mi allontana dalla mera narrazione burocrate della scienza archeologica, che in sostanza non serve più alla vita, specie quella attuale.
Questa statuina, insomma, che la sola vista suscita in me qualcosa di indefinibile e inafferrabile come in chi non è del tutto diventato un automa, è ancora generatrice di qualcosa.
Qualcosa di misterioso e solenne, antico come il mondo, impossibile da spiegare, anche se la scienza ogni giorno inventa una teoria, confutabile il giorno dopo. Gli antichi, molto più antichi dei greci, accennano di riferimenti alla Luna, in contrapposizione al Sole, dai contorni chiaroscuri meno definiti e per questo più magici, ma anche più naturali: le maree, i cicli mestruali, la semina della terra. Qualcosa che ha a che fare con l’armonia del pianeta e la famiglia delle creature viventi, qualcosa che stiamo perdendo e minacciando con la nostra opera di distruzione sia del primo che dei secondi, mediante astrusi esperimenti filosofici, scientifici e industriali.
Cosa stiamo perdendo? La poesia, questo è certo. E la poesia è in contrapposizione alla logica. Alla platonica e aristotelica separazione delle cose e della loro natura fino a farne “ una stucchevole estranea”per parafrasare il poeta greco Kavafis. Da allora questa allucinante visione delle cose e degli accadimenti ha dominato incontrastata nelle scuole e nelle università e i miti, ad esempio, vengono studiati come curiosi relitti dell’infanzia dell’umanità.
Ma, come afferma Hillman, i miti se non vengono onorati si vendicano, lo stanno già facendo, anche se non ce ne accorgiamo. Il mio invito dunque è di andare al Museo e, guardando e mirando questa statuina, di lasciarsi trasportare dall’ inafferrabile e indefinibile facendone buon uso. Oppure non facendone niente. Entrambe le soluzioni andranno bene ugualmente. Provare per credere.
*Lorenza Cappanera, ama le Marche e le fa conoscere al mondo attraverso le sue case e i suoi scritti. Il suo sito marchecountryhomes.com è conosciuto in tutto il mondo. Il suo blog lemiemarche.it racconta dei tesori e della gente di questa regione.


