Pubblicato il 7 Settembre 2022
di Silvia Veroli
Venezia in alcuni suoi angoli ha il puzzo buono di Ancona, di freschì si direbbe qui. Di cose non asciugate bene, sartiame bagnato, catrame, salsedine. Buonpuzza di città di porto. E’ un odore di casa anche per chi Ancona l’ha lasciata da un po’, e per chi l’ha conosciuta per un poco.
Passeggio per Venezia con un fanese che ora fa anzi è chef a Milano, ma ha studiato nella dorica civitas fidei. Repubblica Marinara minore. Ha studiato agraria e quindi ci incantiamo a ogni paccasasso che si fa largo tra le crepe sui moli. Finocchio di mare, lo chiama lo chef, che a me pare politicamente scorretto, ma lui è di Fano, bisogna essere tolleranti, e immaginiamo pietanze.
E’ un weekend intellettuale il nostro, ma la deriva è di cultura materiale, inevitabilmente, e liquida, da bere come la sua Milan. Lui ha due ristoranti, là, e ha un occhio clinico per il lato ristoro e accoglienza, quindi la prima cosa che mi annuncia quando mi vede arrivare gioconda e barcollante sotto uno zaino da interrail alla stazione di Santa Lucia è ”lo spritz qui è a 3 euro” e mi tira per un braccio in una calle appena secondaria rispetto a quelle battute dai turisti. Ci infiliamo in una bettolina dove stiamo noi due, gli zaini, due locali e un cane. Lo spritz costa quattro euro va bè, ma a Milano è arrivato a undici. E qui le tapas hanno il baccalà e le sarde. “potremmo proporgli di metterci i paccasassi che in laguna non sono protetti”. Il dato non secondario è che è mattina.
E il procedere già ondivago per il peso sulle spalle, si compensa con quello dato dall’alcol e si accorda a quello delle strade liquide di Venezia e delle sue barene e all’improvviso cammino dritta, ho il piede marino, come in barca. Una volta nelle Marche avrò mal di terra, madre.


Intanto riusciamo a procedere a piedi fino all’Arsenale, lo chef si orienta, io mi fido, mi sembra non solo di passare sempre nello stesso punto ma di vedere anche le stesse persone. Compro una maschera, ho promesso un regalo. Quella di Salvador Dalì però, dei banditi della Casa di Carta. Sono qui per un festival cinematografico no? E questa del 2022 è una versione fluida della Mostra, no? E Dalì non rendeva tutto fluido e filante, gli orologi, gli elefanti? E il catalano ha del veneto. Calle è via a Venezia e a Barcellona. E rio fiume in tutte e due le città. E me gusta non lo diciamo anche noi? ma ad Ancona, in effetti.
Arriviamo all’ingresso della Biennale d’arte presidiato dalla targa dedicata a Dante, dal suo busto arcigno.
Quale nell’Arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani[…]
L’arsenale, che nel 1600 era il più grande opificio d’Europa, Dante lo racconta all’Inferno, e a me viene in mente la Mole Vanvitelliana di Ancona, portuale contenitore d’arte labirintico. Potrebbe essere una citazione di Arsenale, come il Guggenheim? Che provincialotta. Piero Massimo Macchini mi dedicherà una puntata del suo show. Non devo avere mandato giù Pesaro Capitale Europea della Cultura, anche se ora ci vivo.
Alle porte dell’Arsenale, dicevo, ci sono Dante e due leoni, uno fiero come quello ruggente nel logo della Metro Goldwyn Mayer, uno triste come quello codardo del Mago di Oz di Fleming.
Niente, con la testa sono alla Biennale Cinema, ma questa è la biennale d’Arte, si dipana tra Arsenale e Giardini, e c’è molto inferno. Ci sono padiglioni toccanti, l’arte afrocubana di Belkis Ayon, che recupera un mito fluviale, ci sono molte donne, occhi completamente spalancati, molti uteri, di nuovo molta fluidità, molta luna. Il latte dei sogni, si intitola così del resto, l’esposizione, mutuando il nome da un libro per bambini di Leonora Carrington.
Va bè siamo a Venezia, ma c’è un senso particolarmente profondo che percorre le opere, di intimità e introspezione, e femminile, ovaie (ma anche genitali maschili) come ex voto nel padiglione albanese, viscere, viluppi, umidità. Come il sartiame che sa di freschì. Ci sono tappeti e ricami, arti anticamente femminili. E nel potente padiglione Italia c’è sapore minerale di ruggine e ossa; non si può raccontarlo molto, o si rischia la spoiler, e la Biennale Arte è visitabile fino a novembre. Ma si può dire che un’esposizione quasi teatrale, straniante, che parla di lavoro operaio, lavoro di donne, si pensa a Olivetti, e a una escape room, vale la pena farne esperienza.
Nei Giardini che noi raggiungiamo grazie al propulsore di altro spritz intermedio, colpiscono il padiglione russo chiuso, quello ucraino aperto. Quello Sami, che colonizza l’edificio dedicato di norma ai Paesi nordici, che ospita video arte danzata di Pauliina Feodoroff, resti di renna aerei sospesi da Maret Anne Sara, e i collage di Anders Sunna. La rivincita dei popoli vinti. Da provincialotta penso alla Fano dei Cesari 22, sottotitolo “I popoli conquistati”, misuro la distanza, censuro i miei pensieri
Sorprese da nord anche nel padiglione Danese, dove un cartello avverte che i contenuti sono forti e si parla di morte e di vita e questa seconda specifica soprattutto colpisce. E’ disturbante sì, forte, realizzato con maestria. Di nuovo non si può svelare troppo ma chi ha amato Fantasia, l’episodio dei centauri, ci rimarrà male. Siamo dalle parti del film MidSommar, horror sotto il sole di mezzanotte.
La fragilità sembra l’altro tema di Venezia 22 che pure non parla esplicitamente, così credevamo, di pandemie in transito o di altre transizioni (a parte qualche cyborg all’arsenale). Fragilità e languore. Questo ci riconnette al red carpet del Lido che raggiungo, salutato lo chef, saltando sul vaporetto con la zavorra sulle spalle, e subito vengo respinta “la mascherina va indossata prima di salire” e quella di Dalì non va bene, e non credono che ho la ffp2 in borsa, e fanno male.

Sul red carpet ha trionfato un essere efebico e guarda un po’ gender fluid, Timothée Chalamet, pelle di luna, troppo anemico all’apparenza per essere un cannibale del Guadagnino in concorso, sembra più un vampiro esangue di Interview with the Vampire di Neil Jordan del 94. La circolazione sanguigna è evocata dalla tuta, bagno di sangue che gli è valso un bagno di folla, bella davvero che gli lascia la schiena nuda come a Damiano.
A proposito, al Lido c’è anche la sua, di Damiano, fidanzata; ma nella tempesta di meteore e fake (girano le influencer e gente agghindata da walk of fame con finti body guard al seguito) circolano alcune intramontabili certezze. Sigourney Weaver bionica anche a 70 anni e col cardigan, maestosa in un film pieno di doti ma che poteva fare molto di più “Master of gardener” di Paul Schrader Leone d’Oro alla carriera; e Penelope Cruz che sfolgora e ce la mette tutta per elevare il film di Crialese, “Immensità”, un gradino sopra la condizione di shooting ben riuscito di Marie Claire numero speciale Seventies.
Buffo perché a poche ore di distanza un coetaneo di Chalamet, non così charmant ma comunque esile e con corredo di ciuffo d’ordinanza e aria stralunata, Bernardo Zannoni trionfava alla Fenice, vincendo il Campiello con una favola di animali. Sogni e latte ancora, ninne nanne e falci di luna.
Il Lido del ritorno alla anormalità è un delirio di prenotazioni on line da fare due giorni prima, di posti da accaparrarsi stando in una fila virtuale nel sito di vivaticket, tipo video gioco, 20 minuti prima dell’inizio degli spettacoli. E’ questa la transizione digitale? Sembra più una transumanza di pecore da una dimensione all’altra coi problemi intatti.
Il badge per accedere alle aree accrediti è materiale e devi ritirarlo in un ufficio al pala Casino e mai nome fu più appropriato (e personale paziente, va detto, almeno con me) e dare una foto, e assemblano una sorta di skypass anni 90. Rimpiango le file reali, in presenza.
Ma cambio idea quando ne vivo una che la è una rievocazione della scena della fila al cinema di Io&Annie. Due sbarbatelli con quattro baffi dietro di me, commentano un film bellissimo e dicono “l’ho trovato così..manipolatorio” vorrei guardare come Woody Allen in camera e dire “manipolatorio, la parola chiave è manipolatorio”.
Si sono sentiti manipolati da “The Whale”, la Balena che può aspirare al Leone. Storia struggente di un professore americano obeso, interpretato dentro una tuta del peso di 130 kg dal sorprendente Brendan Fraser diretto da Darren Aronofsky, storia da interno giorno tratta da piece teatrale di Samuel D. Hunter che ha scritto la sceneggiatura del film e si vede. Il professore tenta in extremis di recuperare il rapporto con la problematica figlia (l’attrice è Sadie Sink, la Max di Stranger Things che attirato molti ragazzini al Lido). La balena del titolo è Moby Dick che ricorre in uno scritto recitato a memoria dal protagonista come un mantra, ed è ovviamente il professore stesso che non cammina e usa bastoni per raccogliere oggetti e lavarsi, come se arpionasse se stesso, in una spirale di autodistruzione. Certo che fa piangere, ma c’è talento e storia.
Come ce n’è nella sorpresa indonesiana di Makbul Mubarak, parabola del giovane assistente di un generale in pensione che si candida a sindaco di una comunità rurale e finisce fagocitato dal potere che vince anche quando muore, come certi mostri degli horror redivivi per tirarti via con sé; ma “Autobiography” non è un horror, è più una storia di narcisismo e campagna elettorale di paese. Uh a proposito, sul red carpet c’era anche Matteo Ricci, salito sul side car del vincitore: il documentario Benelli su Benelli di Marta Miniucchi premiato col Kinèo di Pubblico&Critica.
Altre Marche all’aperitivo, in forma di Patatas Nanas, creature dello shef senigalliese Glebbi, nelle chiome delle star (ad acconciarle anche una hair stylist di Porto Sant’Elpidio, Ilenia Tosoni), nelle creazioni moda dei brand Quitto Bags, Cristiano Torricelli, Marta Jane Alesiani e Monia-Sartoria Italiana presentate in un evento al Lido a Villa Malusa, organizzato dalla rivista Fabrique du Cinema con la complicità della CNA picena.

E per tornare nelle Marche, ai suoi paccasassi, pizze Rossini ed eccellenze calzaturiere ho persino trovato un passaggio in auto con cui ci siamo infilati in un traghetto che ha tagliato il Canal Grande dopo aver fatto passare la Regata Storica che si svolge la prima domenica di settembre dal 1300 ma sembra sia nata anche prima per addestrare gli equipaggi al remo. In questa occasione vogano anche le donne, dal quattordicesimo secolo è testimoniata la loro presenza a bordo; penso che poche ore prima di questa manifestazione lagunare il lancio di Artemis falliva per la seconda volta.
La missione lunare con vettore dal nome di donna e futuro equipaggio al femminile dovrà aspettare il terzo ciak per esordire. Il che lascia un po’ di amaro e un vago sollievo: e se poi lassù il satellite che regola la vita di maree e umori terrestri, andiamo a violarlo, per cercare le terre rare necessarie ai nostri device forse tanto vale guardare il dito, uno a caso, e la luna lasciarla stare.



