Visti da vicino da Lorenza. Ripatransone: Eva Maria Capriotti e la “porta dei poeti”

di Lorenza Cappanera

Era da tempo che volevo visitare Ripatransone, un paese che si erge su una collina alle spalle di Grottammare, alto quasi cinquecento metri e dal quale si gode un panorama ricco di angolature, dal mare ai monti, tanto per essere chiari.


Me ne aveva parlato una poetessa incontrata quest’estate ad un evento nel quale si celebravano i cent’anni del Tarpato, un pittore di queste parti incompreso da vivo e, come sempre accade, poi amato e venerato da morto.


Avevo atteso la bruma ottobrina per visitarlo, chiedendo che mi facesse da guida proprio lei che, tra le righe, mi aveva anche detto di una sua idea la quale, a mio avviso, mi era sembrata piacevolmente sovversiva nel senso positivo del termine.


Nel piattume generale di un mondo che guarda soltanto chi è già in scena, basta saper andare oltre: gli estrosi, i bizzarri, inventori e affamati d’amore sono sempre i migliori attori non protagonisti, e di solito più convincenti di chi lo è di mestiere.


Incontro Eva Maria Capriotti davanti alla locale stazione ferroviaria in cantiere perenne, una bella donna dai riccioli d’oro, due fari verdi al posto degli occhi, agente immobiliare di professione e poeta per passione, ha lo sguardo vigile e acuto che non ti aspetti dai dubitatoridei tempi e dei luoghi per natura, pensi che camminino sui bordi delle strade persi in un mondo tutto loro a conversar con le stelle sostando nei giardinetti abbandonati delle periferie, ma è un’immagine che debbo resettare, non si è poeti da cartolina, maledetti alla Baudelaire.


Mentre saliamo per le colline color ruggine, abbandonate le smanie cementizie della costa, guardo il paesaggio e comincio a respirare, mi piace lo stacco improvviso, i palpiti autunnali che allontanano i vacanzieri d’assalto e accolgono la desolazione, il vuoto si fa avanti e la mia mente comincia a vagare.


Volevo che mi parlasse di questa sua idea strepitosa: “la porta dei poeti” e invece, dopo le presentazioni di rito, anche Eva attacca con il solito bottone che sento spesso: “nei paesi ormai non c’è più niente.”


Mi sale d’improvviso il sangue alla testa. Anche lei tra gli “scoraggiatori militanti”, parafrasando Franco Arminio, il paesologo per eccellenza.


Che cosa ci dev’essere – le chiedo di rimando – che non ci sia già? Non è che debba per forza esserci tutto, anzi, uno deve venire o meglio rimanere proprio perché gli altri se ne vanno, motivo in più per starci finalmente e ancor di più trovarsi, specie tra quelli che rimangono si forma una catena di solidarietà permanente, chi fa il brodo al palazzo di sopra fa i cappelletti a fianco, un condominio allargato denso di umanità, odoroso di caffè fumante e caminetti accesi con la legna nel sottoscala, profumi che non trovi più a valle, tra i disertori della civiltà contadina che consumano i pasti in rosticceria.


Forse hai ragione tu – mi dice. Ma forse no, forse ho torto, non lo so.


Sento che questa umanità sconfitta ma non vinta ha ancora molto da dire mentre a valle sempre più spesso si raschia il fondo del barile.


Tra le vie di questo borgo – qui c’è anche il vicolo più stretto d’Italia – sento le voci degli abitanti che non ci sono più e mi sembra persino di vederli con i panni stesi alle finestre, le radioline accese, le tende svolazzanti e il profumo di sugo fumante. Un’umanità fantasma prende forma nella mia testa mentre lei mi parla dei pochi abitanti in vita rimasti ora, e di questa porta che funge da catalizzatore di speranze perdute e ritrovate.


Ad un certo punto – mi dice fiera – in questa porta di un mio locale del vicino liceo ho cancellato tutto! Ero stanca di cancellare e ripitturare, di leggere le solite frasi fatte: simboli fallici e i Che Guevara di turno, numeri di telefono e inviti espliciti. Ho cominciato a scriverci le mie di poesie – seguita con tono deciso, da madre di cinque figli – ho riempito tutta la porta di miei versi. E i ragazzi del vicino liceo hanno cominciato a rispondere, tra uno spazio e l’altro, poetando anche loro e comunque hanno smesso di copiare e iniziato a scrivere con semplicità, niente frasi ri/portate, capisci? Solo farina del loro sacco.


La porta del cuore insomma, che apre ai sogni, all’energia curativa, al quarto chakra, a un’altra dimensione.


Alla fine prendo qualche poesia dal libro che mi ha appena donato: “Vestito di caramella” e ne leggo qualcuna:


Mai t’avrei fatto entrare

nelle mie giornate, nei minuti

riservati preziosi, se non fosse

che tu eri già dentro

io quella chiusa fuori.

E ancora:

Il tempo cura infezioni e mala sorte

se lo si lascia fare

se non stai lì

sempre

a chiedergli

spiegazioni.


Brava Eva Maria Capriotti che, tra l’altro, sta tentando di avviare una collaborazione con le scuole elementari locali per esercitare i bambini alla poesia, vorrei che ogni paese delle Marche adottasse una porta dei poeti come hai fatto tu, semplicemente.


Che ci fosse un brevetto tutto nostro per arginare quell’apatia da panchina, aspettando un tempo che ci viene donato e che spesso non sappiamo sentire.