Gli incontri straordinari di Paolo Pirani: zia Lina e Valeria Moriconi
di Paolo Pirani
Lei, che mi presentò all’immensa Valeria Moriconi, con la quale ho trascorso attimi e avuto collaborazioni indimenticabili presso il Centro Studi teatrali Enriquez di Sirolo, intitolato al grande amore della sua vita, compagno e sodale nella fantastica avventura sentimentale e professionale di una delle più grandi interpreti della drammaturgia mondiale di ogni tempo.
Un grazie a lei
Lei, che come tante e tanti personaggi (ma prima ancora persone) che ho avuto la fortuna di intercettare lungo il cammino sin qui percorso, e che non tramontano col declinare del sole o, come si dice dei sogni, all’alba, ma risorgono ogni giorno all’orizzonte della mia memoria; e mi invitano al ricordo (non al rimpianto), alla confidenza (non al protagonismo), ce n’è sin troppo sotto ogni riflettore approntato con cinico occhio indagatore anche sul palcoscenico più improbabile.
L’incontro straordinario e irripetibile
Lei, che come ogni altro compagno di viaggio, ha rappresentato un incontro straordinario, perché originale dunque irripetibile, più o meno occasionale sia stato, chiede solo di prendere voce pur nella mediazione della mia narrazione. Perché è la bellezza che unisce le persone: forse salverà questo nostro malandato pianeta, dando senso all’oggi e speranza al futuro. E questa è il “racconto di un incontro” con una persona per altri versi “anonima” ma unica nel suo genere, nella sua vicenda di vita, nelle sue passioni, nei suoi dolori, nelle sue speranze. Semplicemente, luminosa e incorrotta “storia di un’anima”.

Zia Lina
La chiamavo zia Lina ma era una specie di parente acquisita, non saprei dire però per via di quale ramo della famiglia. Abitava a Jesi in via Costa Baldassini, 10, prossima alla chiesa di San Pietro, pieno Centro Storico, come i quartieri popolari delle grandi città che conosciamo o per averli visti di persona o attraverso tanta cinematografia nostrana, dal Neorealismo di Rossellini passando per la sceneggiata napoletana fino al Raccordo della “Grande Bellezza”. Con i luoghi, le persone, le consuetudini, le storie, in una parola le atmosfere comuni a tutti i quartieri popolari delle città, ma anche delle borgate o dei centri storici, appunto, dei paesi di Provincia.

In quel palazzone nel centro di Jesi
Occupava un appartamento, quasi un attico, di un palazzone tardo ‘700, con le stanze in fila, che le attraversi tutte se devi andare dalla cucina alla camera da letto. Sono stato da lei per alcuni giorni quando consultavo il fondo antico della biblioteca Planettiana per la mia tesi sui “quaresimalisti” barocchi a fronte dei giullari e comici dell’Arte, e anche perché le ho pitturato le persiane, verdi, delle enormi finestre. Bassina, dai tratti minuti, non pingue ma certamente in carne, dall’aspetto dolce e fiero allo stesso tempo (come lei stessa rivendicava), gli occhi sorridenti, solo talvolta assenti, forzatamente, a causa di una sindrome depressiva che l’ha inseguita per tutta la vita, squassandola senza mai conquistarla definitivamente, anche se è stata sottoposta a sciagurati trattamenti “lenitivi” o “contenitivi” per periodi fortunatamente limitati ancorché reiterati.
Una vita iniziata con l’abbandono
A questa condizione, retaggio di una vita mai facile, ha però reagito con determinazione e mille interessi diversi. Deposta in fasce sulla ruota di un convento di suore, adottata da una madre che, senza saper leggere (sciogliendo uno dopo l’altro i nodi fatti su un grande fazzoletto per ogni stazione ferroviaria superata), rincorse il figlio a Parigi che, fuggito di casa la sera prima, partecipava ad una gara di tango, sottoposta alle particolari attenzioni di quello “zio – ballerino” che la esibiva come un trofeo d’estate a Caracalla, conosceva tuttavia, proprio per questo, le arie delle principali opere del repertorio nazionale, avventurandosi di quando in quando anche in qualche duetto nel quale interpretava lei e lui con esilaranti cambi di voce e di espressione.

E Valeria Moriconi mi prese sottobraccio
Da Roma si trasferì a Jesi durante il Ventennio, a causa della fede repubblicana della famiglia che lì gestiva un baracchino di frutta e verdura, ripetutamente distrutto dalle squadracce fasciste. Lei stessa, fervente repubblicana, era solita frequentare la sezione jesina di quel partito. E devo a lei se Valeria Moriconi, repubblicana e jesina a sua volta, mi prese una sera sottobraccio perché intendevo conoscerla e invitarla come ospite d’onore alla cerimonia finale della Rassegna Nazionale del Teatro della Scuola di Serra San Quirico che ho seguito per un quinquennio. Me la presentò mia zia.
La storia d’amore
Ma il centro di tutto, nel bene (di cui avrebbe potuto finalmente beneficiare) e nel male (che le inflissero ottusamente i famigli residui), altra concausa dei suoi successivi, debilitanti malesseri psichici, fu una grande storia d’amore che la travolse con la furia distruttrice di uno tsunami. Conobbe un liutaio, costruiva violini per musicisti famosi. Lei se ne invaghì, lui suonò per lei straordinari assolo. Si frequentarono, semiclandestinamente, data l’avversione inscenata dallo zio – tutore e padrone per quella relazione infine scoperta, per una forma di gelosia genitoriale, possessiva, quasi patologica. Per questo, insieme al difficile periodo in termini sociali ed artistici che spinse persino il grande Toscanini a lasciare l’Italia, lui decise di partire e le chiese di accompagnarlo in quell’avventura, insomma di fuggire insieme in America. Le cose sembravano destinate ad esiti positivi quando lo zio la costrinse in malo modo in casa.
In quel violino la dedica
Lei si disperò. Lui l’attese invano, senza avere notizie. Così decise di partire ugualmente, con il cuore spezzato e il visto per l’espatrio sul passaporto che non avrebbe più potuto rinnovare. Però volle lasciarle un violino con dentro inciso il suo nome ed un’appassionata dichiarazione d’amore. Non si rividero più. Il violino sparì senza che lei potesse leggere il messaggio che conteneva. Lo zio continuò a portarla all’opera, al Pergolesi, ma sempre più raramente. Lei cantò ancora e ancora le arie di Turandot e Bohème con la mano sul cuore e lo sguardo assente.